Un niente. L’inizio del Lohengrin di Wagner è per l’orecchio come per le dita il cercare di passare un filo d’aria fra il pollice e l’indice, come cercare di trattenere un tessuto che si sfalda e smaterializza, come pensare di sfiorare l’azzurro dei crepuscoli di primavera.
Azzurro è (insieme a qualche sfumatura di argento) l’unico colore possibile per quest’opera, anche quando la vicenda impone scene di massa, col coro e tutti i protagonisti presenti; anche quando, come nel Preludio al terzo atto, l’orchestra suona fortissimo ed esegue passaggi veloci, scorrendo come un torrente di montagna o come il flusso delle onde sotto al Maestrale.
Un azzurro che, pure vestendo gli eventi tragici della trama, non è mai il cinereo colore del periodo blu di Picasso, non è mai livido o triste, ma sempre al di sopra della Storia, al di sopra dei personaggi e dei fatti rappresentati.
Un inevitabile ed immateriale afflato, è l’anima stessa del protagonista, il quale arriva misterioso nel primo atto, sulla sua navicella che solca le acque del fiume guidata da un cigno, e che, alla fine dell’opera, deve abbandonare la sua sposa Elsa, proprio perché costei osa chiedergli il suo nome e la sua provenienza.
Un azzurro che deve restare imperturbato, lontano ed immateriale, proprio come l’anima di coloro che davvero amiamo.